Nella notte fra il 14 e il 15 aprile 1986 moriva a Parigi Jean Genet, una delle figure emblematiche per eccellenza dello scrittore maudit.
Jean Genet è stato la rappresentazione della figura umana scomoda, un tassello critico difficile da collocare nel contesto della letteratura francese del Novecento.
Se, da un lato, venivano date per certe tanto la sua filiazione ideale dal ceppo dei maudits, quanto la sua non comune abilità di destreggiarsi tra reminiscenze classiche (Villon, Racine, Chateaubriand, Mallarmé e Proust su tutti) e parossismi da romanzo d'appendice, dall'altro lato questi elementi non contribuivano in alcun modo a chiarire il mistero di un apprendistato poetico che, in pochi anni, aveva portato un autodidatta di provincia a diventare, secondo le parole di Jean Cocteau, ''il più grande scrittore di Francia''.
Il sogno della scrittura, per il carcerato Genet, rappresentava una via di fuga, un mezzo - forse il solo - per gettarsi definitivamente oltre le sbarre.
Quasi tutti i grandi libri di Genet sono stati scritti o concepiti in prigione. Soprattutto, verrebbe da dire, sono libri scritti per uscire dalla prigione. ''Scrivere - confessa Genet in un'intervista filmata concessa ad Antoine Bourseiller - è un gesto estremo, ed è forse l'ultimo appiglio che rimane quando si sa di aver tradito tutto e tutti. La scrittura è ciò che ci resta, quando siamo stati cacciati dal regno della parola data''.
Genet scrisse i suoi primi lavori su una carta ruvida da pacchi. Questa carta veniva consegnata ai detenuti per le loro esigenze pratiche, e l'amministrazione carceraria vigilava perché non se ne servissero altrimenti. Genet compose alcune poesie servendosi proprio di quella carta da pacchi. Venne scoperto e punito, e i manoscritti dati alle fiamme.
Le liriche de Le condamné à mort (raccolte in italiano nel volume Poesie, per la cura di Giancarlo Pavanello, Guanda, Milano 1982), che Genet ricompose a memoria (la stessa cosa che, molti anni dopo, avrebbe dovuto fare con i frammenti su Rembrandt e con Quattro ore a Chatila), vennero presumibilmente scritte tra il mese di maggio e quello di ottobre del 1942, nel carcere di Fresnes. La stampa, in cento esemplari, a spese e per conto dell'Autore, fu assicurata da un amico falsario, che di solito stampava false tessere annonarie.
La produzione romanzesca di Jean Genet comprende sei testi, cinque dei quali scritti in prigione, tra i trentadue e i trentasei anni, ed uno (Un Captif amoreux) scritto dopo i settant'anni, e completato pochi mesi prima della morte.
Due di questi romanzi (Notre-Dame-des-Fleurs e Miracle de la rose) sono ambientati nell'universo carcerario, mentre negli altri prevale, di volta in volta, la ricostruzione autobiografica (Journal du voleur), il fascino della devianza (Querelle de Brest), l'ambientazione storica (Pompes funèbres), o una visione, sconcertante e impossibile, dell'Oriente (Un Captif amoreux).
Autore di uno splendido cortometraggio, Un Chant d'amour, Jean Genet non mancò di portare lo scandalo della sua vitalità anche nel mondo del cinema. A lui si sono ispirati registi del calibro di Oshima (con Shinjuku dorobo nikki, Diario di un ladro di Shinjuku, 1968) e Reiner Werner Fassbinder (con Querelle de Brest, 1982).
Proprio Reiner Werner Fassbinder, parlando dell'amato-odiato Genet, confessava: ''Querelle de Brest di Jean Genet è forse il romanzo più radicale della letteratura universale per quanto riguarda il contrasto tra azione oggettiva e fantasia soggettiva. È estremamente eccitante e emozionante scoprire, prima lentamente, poi con crescente insistenza, il rapporto esistente tra questo mondo estraneo con le sue leggi e la nostra realtà, naturalmente anche soggettiva; scoprire come questo mondo sottragga alla nostra realtà delle verità sorprendenti, perché ci costringe a processi di conoscenza e decisioni che, per quanto dolorosi possano essere, ci avvicinano alla nostra vita - e non importa se traspare il pathos. E questo significa: ci avviciniamo alla nostra identità. E solo chi ha raggiunto una totale identità con se stesso non deve più avere paura. E solo chi non ha paura può amare al di fuori dei valori. Ecco il traguardo estremo di ogni fatica umana: vivere la propria vita''.
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