mercoledì 22 aprile 2009

Jean Genet - Il Funambolo - Un Chant D'Amour



Tu entri e sei solo. Apparentemente, perché Dio è là.
Egli viene non so da dove, forse lo portavi
Tu entrando, o lo evoca la solitudine, è lo stesso.
E’ per lui che fissi la tua immagine.
(Il Funambolo)

"Dalle scorie emergerà il più fulgido diamante: la solitudine o santità"

Il Funambolo di Jean Genet è uno scritto non teatrale, una folgorante dichiarazione di poetica e d'amore, attraversata da una fascinazione sinistra di lustrini caduti nella segatura della pista del circo. Dietro a questo testo esiste una storia vera: nel 1956 Genet incontrò Abdallah. Pochi ricordano Abdallah, sebbene Genet, a posteriori, lo definisca una delle persone più importanti della sua vita. Io penso che Abdallah sia stato il suo capolavoro. Genet iniziò il giovane algerino all'arte della corda e lo spinse al successo, ma la relazione fra i due s'indebolì quando il funambolo dovette abbandonare la carriera a causa di un incidente al ginocchio. Il disinteresse di Genet, il fallimento, la solitudine portarono Abdallah al suicidio. Questo suicidio diventa la santificazione di Abdallah, il suo trasfigurarsi in pagina letteraria. Una sorta di cannibalismo. Genet ladro d'anime. Genet porta in scena la tomba di Abdallah, tomba e altare al tempo stesso: il dio sacrificato in mezzo a ceri, ex voto, simboli del circo, fiori.
Due attori raccontano attraverso la parola e la danza due storie parallele: quella del reale fallimento di Abdallah e quella dell'idea poetica che Genet voleva realizzare attraverso la carne del suo amico. Una storia di rapporti di potere all'interno di una coppia, dove l'amore non è amore per l'altro, ma per ciò che l'altro rappresenta. In scena l'idea centrale è l'ossessione della corda. Alla corda si mescolano sangue, lustrini, segatura e poi le immagini mentali e barocche che la bidimensionalità di un video restituisce allo stile di Genet: dettagli di corpi, di statue, frammenti di qualcosa che si confonde nella testa, radiografie, cavalli che cadono, parole che bruciano. Si contrappone all'immagine video la danza, usata come elemento narrativo.
Il testo nasce con lo spettacolo, contaminando scritti di Genet alle parole che immaginiamo possano essersi detti due amanti, lungo la parabola triste di un amore che esplode e poi si frantuma nella discesa verso l'abbandono e nella vertiginosa risalita della creazione di una spietata letteratura post mortem.

Un Chant D'Amour: Avvicinandosi a una prigione, un carceriere si accorge che il braccio di un prigioniero cerca vanamente di afferrare dalla finestra una ghirlanda di fiori che un altro recluso cerca di passargli dalla sua finestra. II carceriere, incuriosito, passeggia per il corridoio e spia nelle celle, in ognuna delle quali un prigioniero si masturba. In particolare, il suo occhio è attratto da due prigionieri in celle attigue: un giovane muscoloso e tatuato in canottiera che balla da solo ed un tunisino. Questi, magnetizzato dalla presenza dell'altro, sfoga sul muro il suo irrefrenabile desiderio di sesso: lo bacia, vi si striscia contro, lo sfrega, si masturba su di esso finché non passa attraverso una cannuccia, inserita in un piccolo foro, il fumo di una sigaretta che I'altro aspira avidamente. II carceriere, molto eccitato, irrompe nella cella del tunisino, lo frusta con la cinghia e, in un secondo momento, gli mette una pistola in bocca. Alcune scene spezzano ritmicamente il racconto: la ghirlanda che continua a ciondolare, alcuni corpi nudi aggrovigliati plasticamente in controluce e la visione del tunisino che, eccitato ancor più dall'azione del carceriere, sogna di essere romanticamente con il suo compagno in un bosco. II carceriere lascia la prigione, osservando ancora una volta la ghirlanda che ciondola senza successo da una finestra all'altra: voltatosi, non si accorge però che e stata finalmente afferrata.

Vertice di poesia cinematografica questo breve film in bianco e nero dello scrittore omosessuale Jean Genet ha fatto sognare intere generazioni di gay. E' stato definito un inno all'omosessualità, al desiderio omosessuale, ma io credo che sia soprattutto un inno all'amore in assoluto. E' un vero peccato che questo sia l'unico film girato da Genet. Scandaloso pensare che il film abbia girato nei primi anni solo come film pornografico tra privati collezionisti. Tra i vari registi che si sono richiamati a questo capolavoro ricordiamo Todd Haynes con il film "Poison" del 1991. "Non c'è fumo senza incendio; un Chant d'amour è una comunione con la quale Jean Genet ci accompagna dentro una prigione al fine di liberarci da essa" Derek Jarman.

Un Chant D'Amour (ossia "Un canto d'amore") è in assoluto uno dei capisaldi del cinema gay. Colpito più volte da forti tagli censori, perché tacciato di pornografia, e circolato solo in proiezioni private od alternative, il film è definitivamente uscito dal suo oblio solo nel 1971 a Londra. Prodotto grazie a Nikos Papatakis (il regista de Les equilibristes), è l'unico film di Jean Genet, lo scrittore maledetto autore di Querelle de Brest. La vita di Genet, omosessuale e ladro, si è svolta al di fuori di ogni canone usuale e quando nel 1950 girò questo film era uscito di prigione (dove aveva trascorso molto tempo) da due anni, grazie all'interessamento di alcuni scrittori, come Cocteau o Sartre. Per lui la prigione era il luogo privilegiato del desiderio, dove la presenza di carnefici e vittime, di segregazione e di violenza, acuisce i sensi appagando come non mai ogni fantasia sessuale. Muto ed in bianco e nero, il film è stato girato in economia e con discrezione (gli stessi nomi dei personaggi e degli attori sono particolarmente vaghi). Il fatto che sia ambientato in una prigione lo rende più che mai autobiografico (come del resto tutta la sua opera), una lirica e sensuale proiezione dell'immaginario fantastico di Genet. Ma è altresì, il trionfo visivo di ogni immaginario omosessuale, in cui amore e violenza, sesso e poesia si mescolano potentemente, in un insieme di immagini riunite analogicamente (e talvolta alogicamente) con grande libertà, quasi un universo simbolico a sé stante. E' un amore lirico nel sogno del tunisino, la sua fuga nei campi con il suo oggetto del desiderio, o i fiori di melo finalmente ghermiti; ma è un amore che si confronta con la violenza - il secondino che frusta e forse violenta il tunisino - e con il sesso, mai esplicito ma evidente in tanti simboli (la pistola nella bocca o la cannuccia con il fumo alludono ad una fellatio) e nella nudità dei personaggi, i cui corpi sono sfolgoranti di sensualità. Il film si realizza in realtà soprattutto sul piano delle immagini e degli sguardi: immagini di corpi avvinghiati in marcati controluce, che ricordano le foto di Platt Lynes, e di sguardi rubati all'intimità dei prigionieri che lo spettatore, più voyeur dello stesso secondino, riesce a spiare.
Recensione di Vincenzo Patanè da "A qualcuno piace gay" (La libreria di Babilonia, 1995)

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