Nel 1925, in una splendida magione della campagna inglese, un pittore diventa amico del figlio gay di un lord e si invaghisce di sua sorella. Scenografie magnificenti ma protagonisti poco espressivi.
“Sodomiti. Senza vergogna. Stanne alla larga!”. Così, senza mezzi termini, il protagonista Charles Ryder viene messo in guardia dal cugino al cospetto dell’eccellenza intellettuale di Oxford - siamo nel 1925 - dove un gruppo di studenti eccentrici e vanesi, con fiore ‘wildiano’ all’occhiello, attira la sua attenzione per i modi teatrali e la vivacità creativa con cui i ragazzi entusiasti declamano poesie e discutono animatamente di letteratura e società. È l’inizio del passabile “Ritorno a Brideshead”, filmone in costume su quel che resta dell’aristocrazia inglese post vittoriana, firmato da Julian Jarrold, regista della commedia drag “Kinky Boots” e del più affine “Becoming Jane”. Il novello collegiale Charles, futuro pittore di umile discendenza (Matthew Goode), diventa amico del figlio di Lord Marchmain, l’omosessuale dichiarato e dal bicchiere facile Sebastian Flyte (Ben Whishaw).
Costui se ne invaghisce e si suppone che tra i due si instauri una relazione non solo platonica - in realtà il regista gestisce la questione in maniera piuttosto ambigua mostrando un unico, pudico bacio sulla bocca - e mentre sembra che Sebastian sia vistosamente stregato da Charles, quest’ultimo è attratto più dal mondo di opulenza accidiosa in cui vive l’aristocratico, ossia una sterminata villa, Brideshead appunto, con parco infinito e fontane monumentali, champagne come acqua fresca e preziose cristallerie. Qui Charles conosce la sorella di Sebastian, la sbarazzina Julia (Hayley Atwell) di cui s’innamora pur essendo promessa in sposa a un neoconvertito (controvoglia, nel rispetto di un tòpos praticamente immutabile in questo genere di film) dall’intransigente mamma ipercattolica, la schietta Lady Marchmain, che sembra molto più scandalizzata dal fatto che Charles sia ateo piuttosto che abbia una relazione col figlio, nei confronti del quale dimostra un’asfissiante protettività.
Tratto dal celebre omonimo romanzo di Evelyn Arthur Waugh, scrittore specializzato in analisi critiche dell’alta società inglese, tradotto in Italia da Bompiani sessant’anni fa, era diventato nel 1981 un serial per la televisione in undici puntate con Jeremy Irons e Anthony Andrews: ciò spiega la notevole densità narrativa del film che scorcia alcuni passaggi anche importanti (il nuovo amante di Sebastian in Marocco, il tedesco Kurt, si intravede nella scena in cui Charles viene mandato da Lady Marchmain a cercare il figlio ma non viene spiegato che Kurt si suiciderà in un campo di concentramento contribuendo al declino psico-fisico di Sebastian) ma perlomeno evita il difetto principale di questi film tendenti inesorabilmente al calligrafico: la noia.
Ciò che resta più impressa è la sontuosa ricostruzione storica e d’ambiente - scenografie magnificenti, costumi accurati, inquadrature pittoriche - mentre fra i tre giovani protagonisti non particolarmente espressivi, pur essendo tutti emergenti (in particolare Ben Whishaw che era a Cannes nei panni del poeta John Keats per “Bright Star” di Jane Campion), manca quella chimica che sarebbe stata necessaria soprattutto nella parte sentimentale del plot e i migliori restano sempre i veterani, ossia un’ineguagliabile Emma Thompson con capigliatura argentea e sguardo spento nel ruolo di Lady Marchmain, un ritrovato Michael Gambon in quello del sardonico marito lord esiliato volontariamente a Venezia, ma rientrato nell’amata Brideshead per trascorrervi gli ultimi giorni di vita, nonché un’invecchiata ma incisiva Greta Scacchi nei panni dell’affettuosa Cara, la sua nuova compagna.
Il rapporto amicale/amoroso tra Sebastian e Charles non viene approfondito adeguatamente (non ci sono certo i tormenti di “Maurice” o “Another Country” e il personaggio di Sebastian a due terzi del film addirittura sparisce dalla narrazione) ma ciò che emerge è soprattutto il senso di tacita tolleranza nei confronti dell’omosessualità in ambiente aristocratico perché accostato a una sorta di vizio in fin dei conti perdonabile.
E c’è molto Ivory in questo film (soprattutto “Casa Howard”, con la magione di famiglia vero centro degli affetti) ma anche una certa freddezza di fondo che impedisce allo spettatore di appassionarsi realmente alle tortuose vicende raccontate.
Si può vedere.
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